Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 16 ottobre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Diciottesima
Parte)
36. Meccanismi mentali ed effetti dell’osservazione astronomica
sulla psicologia del credo religioso. Nel Seicento il rigore della ragione, se da un canto crea le prassi logico-empiriche
fondando il pragmatismo anglosassone, dall’altro consente all’affidabilità del pensiero
matematico di incontrare la certezza della fede nella dimensione della purezza,
come accade in Cartesio[1]. Lo stesso
Galileo, che rifiuta la sottomissione alla “pratica della lettera” di stampo farisaico
affermatasi in buona parte delle gerarchie ecclesiali, esprime una sostanzialità
fideistica nel cercare di compiere con l’arte letteraria la bellezza della conoscenza
ottenuta leggendo con la logica matematica i fenomeni del mondo fisico[2].
Non sono il solo che avrebbe voluto incontrare di
persona nella vita reale quei soggetti storici che negavano l’esistenza delle
macchie solari e il moto di rivoluzione della Terra, per studiarne la
psicologia, per comprendere le esigenze mentali sottostanti le argomentazioni
razionali[3]. Da
ragazzo, quando a scuola studiavo Galileo Galilei, pensavo che costoro non
fossero veri credenti se ritenevano che la fede avesse bisogno di essere
protetta con la negazione della realtà. Oggi credo che quel giudizio non fosse tanto
lontano dal vero, perché chi attribuisce all’interpretazione letterale,
e dunque alla forma, di un contenuto marginale del testo biblico che non
fa parte né della Legge ebraica né degli argomenti trattati da Gesù Cristo
nella sua predicazione evangelica, un ruolo decisivo per stabilire se si è
eretici o credenti nella rivelazione, ha spostato nella sua mente il valore di verità
dalla sostanza dei comandamenti ai costrutti della cultura
religiosa elaborata dall’uomo.
Ma l’aspetto che più mi interessa è cercare di capire –
prescindendo da coloro che si imponevano questo atteggiamento indipendentemente
dal proprio intimo convincimento, recitando una “parte in commedia” per ferma
adesione politica all’intransigenza religiosa come strumento di difesa ideologica
– cosa accadeva nella mente di quanti vivevano una sincera spiritualità di
sostanza, come Bellarmino[4], e
tuttavia ritenevano per sé stessi e per gli altri necessario impedire al
pensiero di concepire alcun aspetto della realtà fuori di una rigida costrizione
dogmatica.
Convinto che la struttura elementare dei processi
mentali, come il cervello stesso, non vari molto nei secoli e nei millenni e
che la gamma degli atteggiamenti psicologici di fondo sia sostanzialmente la
stessa ai nostri giorni, credo che non sia azzardato tentare deduzioni inferenziali
dalla psicologia dei nostri contemporanei.
Attingendo alle mie osservazioni su pazienti
psichiatrici e neuropsicologici, e soprattutto allo studio informale di numerose
persone in un’apparentemente perfetta salute mentale, deduco l’esistenza di un
bisogno di “intoccabilità”, più o meno espresso, più o meno attuale, più o meno
sentito quale urgenza dalle diverse persone e al variare degli stati d’animo,
ma sempre presente. Se posso dar credito alla mia esperienza, devo dedurre la presenza
in ciascuno di noi, come bias, dell’esigenza di avere qualcosa nel mondo
interiore, che possiamo provare a definire in termini di qualità di un oggetto
mentale, che debba essere rispettata al punto da non sottoporla a vaglio critico.
Mi rammenta, questa intoccabilità, la difficoltà e
quasi l’impossibilità di alcune persone a pronunciare il nome di battesimo del
proprio padre, rilevata e generalizzata in stile freudiano come meccanismo
psichico inconscio da Jacques Lacan, che per descriverla, distinguendola da una
vera e propria inibizione, adottava un termine del diritto britannico, forclusion,
impiegato spesso per indicare una particolare preclusione condizionata per
l’accesso ad un bene, diversa da un impedimento assoluto o un’interdizione.
In altri termini, per il modo in cui era stato appreso
il sistema tolemaico fin dall’infanzia, molti avvertivano, senza esserne del
tutto consapevoli, una resistenza interiore a metterlo in discussione, come se
fosse preclusa l’entrata nella coscienza, ossia nell’esplicita consapevolezza
critica, del suo status di oggetto mentale intoccabile. E per poter violare questa
preclusione, o superare questo impedimento, costoro cercavano delle buone
ragioni. Si comprende che, trovando nelle ragioni della cultura, e dunque nel
patrimonio della coscienza, ragioni opposte che di fatto legavano alla
sacralità oggettiva e non psicologica delle venerate scritture bibliche quel
modello cosmologico, avessero una così grande resistenza ad abbandonare
convinzioni fondate su uno stato della mente collegato all’equilibrio degli
apprendimenti precoci[5].
Quanto questa tendenza rappresenti una
predisposizione al sacro e quanto la si possa ridurre all’attività di reti
neuroniche principalmente localizzate fra aree in passato ascritte al circuito
limbico o “cervello emozionale”, è tutto da verificare e discutere, ma
personalmente non dubito della sua esistenza[6]. Quale
eccezione che confermerebbe la regola, ho rilevato la sua apparente assenza o
remota evocabilità in due persone diagnosticate di disturbo psicopatico di
personalità con segni di ipotrofia o mancato sviluppo alle scansioni cerebrali
in risonanza magnetica nucleare (RMN) di strutture cerebrali generalmente
ipoevolute nei sociopatici, e la cui atrofia è associata ai deficit di capacità
empatica, di rispetto del valore della vita, di reazione di paura motivata in
circostanze di pericolo oggettivo e di risposta ansiosa per effetto di stress.
Ci si può anche interrogare sul perché nessuno di
tanti fini intelletti, come Bellarmino e anche lo stesso Urbano VIII studioso
di filosofia cristiana, oltre che della stessa fisica galileiana, abbia mai portato
alla propria coscienza la resistenza psicologica e non razionale ad accettare
il modello copernicano.
La risposta può essere immediata: un secolo dopo, quando
Immanuel Kant con il suo Saggio sulle malattie della mente propone una
prima forma di prospettiva psicologica nella lettura dei processi mentali, i
sui contemporanei non mostrarono alcuna sensibilità per l’argomento. Anche se
Kant nelle sue Lezioni di psicologia si era spinto fino a indagare il “potere
dell’animo di padroneggiare i sentimenti morbosi con il semplice fermo
proponimento”[7]
in quella sezione degli studi intitolata Conflitto delle Facoltà in cui
propone il ritorno alla dietetica dell’anima, nella sua visione complessiva sul
sapere umano non era mai giunto a riconoscere al pensiero psicologico la
dignità di uno strumento di conoscenza. Infatti, nella Logica lo
considera un mero opinare, ossia un “tener-per-vero in base a un fondamento di
conoscenza che non è sufficiente né soggettivamente né oggettivamente”[8]. E
nella Critica della ragion pura precisa ulteriormente che “non c’è una
psicologia razionale come dottrina, che procuri un’aggiunta alla nostra
conoscenza di noi stessi, ma solo come disciplina, che pone in questo
campo alla ragione speculativa limiti insormontabili”[9].
Dunque, è facile supporre che un secolo prima non
esistesse nemmeno traccia di un pensiero psicologico e, soprattutto, della
distinzione tra il livello riflessivo del pensiero cosciente e il resto della
psiche. Non si può dimenticare che al tempo di Galileo la pedagogia religiosa,
seguendo una tradizione di millenni, tendeva a identificare la psiche con la
volizione preposta al dominio degli istinti confinati nel corpo.
Ma è vero che studiare l’astronomia considerando ciò
che si esplora fuori da un inquadramento dogmatico di senso che racchiuda
nella narrazione di una cornice metafisica i corpi celesti e lo spazio, come
faceva Galileo e continuiamo a fare oggi, induce all’ateismo o quanto meno all’agnosticismo?
Da quale esperienza o da quale intuizione proviene questa idea che circolava nella
Chiesa? Con ogni probabilità l’idea deriva dall’esperienza personale di alcuni astronomi,
i quali, peraltro, erano in maggioranza appartenenti al clero. Ho provato a
chiedermi: cosa
accade nella mente di chi studia l’astronomia?[10]
Una prima distinzione va fatta tra chi segue
delle lezioni e studia qualche argomento, come abbiamo fatto tutti al liceo,
contemporaneamente dedicandoci a tutte le altre materie scolastiche, e chi letteralmente
si immerge in questo campo, come nel caso di chi si dedica all’astrofisica professionalmente,
attualizzando con regolari osservazioni telescopiche una realtà materialmente
lontana dalla nostra quotidianità. Le mie osservazioni si riferiscono al
secondo caso.
Un astrofisico di mezza età mi riferiva
che da giovane aveva avuto come una sorta di rivelazione nelle sue lunghe
osservazioni telescopiche notturne: una presa di coscienza di una realtà potenzialmente
infinita, che sfugge al controllo dell’uomo e rende piccoli, relativi e
insignificanti tutti i prodotti della cultura umana, comprese religione, arte e
filosofia. Era così diventato ateo, ritenendo che un Dio a misura d’uomo come
quello delle religioni monoteiste non fosse compatibile con una realtà
incommensurabilmente più grande, in cui la Terra appare come un piccolissimo
trascurabile puntolino nella miriade incalcolabile di pianeti di cui sono
probabilmente popolate le galassie dell’universo.
Un altro astrofisico, più giovane, mi ha
parlato di un’esperienza di progressivo distacco dal credo religioso avvenuta immergendosi
nelle osservazioni e in teorie che invaliderebbero anche la concezione del big
bang: nel cielo osservabile e negli universi concepibili non aveva trovato
segni, tracce o prove in grado di suggerire l’ordine cosmico come creato
e la presenza di un essere vivente di natura non biologica ma immateriale, in
grado di assumere in sé tutto l’esistente, e le cui dimensioni vadano oltre il
concetto stesso di spazio-tempo.
Un terzo astrofisico, mi ha detto che l’osservazione
del cielo aiuta a staccarsi dagli eventi del mondo che assorbono la mente di
tutti noi e rende evidente che, nella storia, l’umanità si è nutrita di grandi
narrazioni che hanno costituito l’orizzonte del pensiero comune; i progressi
della scienza hanno reso la filosofia desueta quale esercizio della ragione su
contenuti narrativi e la si è accantonata come strumento per dare risposta ai
grandi interrogativi dell’uomo, che trovano modo di riformularsi nei termini
provvisori delle prassi sperimentali. A partire dalla teoria della
relatività generale – secondo lui – si sarebbe dischiusa come evidenza una
realtà in cui non c’è più posto per un sapere narrativo acriticamente legato alla
tradizione, come quello religioso, se non nelle forme dell’arte e del gioco;
condizioni in cui non è in questione la verità, ma solo il piacere dell’intelletto
e il divertimento.
Altre testimonianze dell’esperienza
personale di astronomi e osservatori dei corpi celesti sono state più o meno
dello stesso tenore di quelle che ho appena riferito, così ho scelto di assumerle
come significative, se non addirittura paradigmatiche, della reazione psicologica
che volevo indagare. Cercando di immaginare lo stato funzionale della
cognizione cosciente che ha generato le considerazioni che ho riportato, credo
di poter riconoscere, quale elemento comune, un effetto di verità
generato dalla realtà fisica esplorabile con la vista e dalle sue
interpretazioni sviluppate nella rigorosa chiave della logica matematica, che per
la mente di uno studioso sono l’equivalente di un’evidenza. In questa
ottica o “stato mentale” è come se l’astronomo si trovasse di fronte a questa
alternativa: cosa è più vero, quello che si scrive o si dice sulla base di un’antica
tradizione, o quello che vedi con i tuoi occhi e quello che puoi desumere ragionando
su una realtà incommensurabile, che va avanti da miliardi di miliardi di anni e
così andrà avanti ancora, forse senza una fine, ma in cui tutto è regolato da
causalità fisica.
Pur senza avere il supporto delle
conoscenze attuali e rimanendo semplicemente all’effetto dell’osservazione
telescopica del cielo e dei corpi celesti, si può ritenere che un simile effetto
di verità evocato dall’impatto con la realtà naturale possa essere
stato esperito anche al tempo di Galileo Galilei. Probabilmente, l’aver
esperito personalmente questo effetto deve avere indotto dei religiosi a
considerare l’astronomia un rischio per le coscienze dei fedeli.
Anche se l’evocazione di questo effetto di
rivelazione materiale, che possiamo accostare anche alle reazioni
psicologiche indotte dall’assistere per la prima volta a un parto o alla morte
di una persona[11],
è di fatto possibile solo se la fede non è radicata in una coscienza adulta
del senso posto in gioco dall’esistenza di un essere soprannaturale che costituisce
il supremo ente morale. In altri termini, questo effetto del mondo fisico che
cancella la spiritualità è possibile in coloro per i quali il credere in Dio
non è parte della propria identità, ma solo il portato di un apprendimento
educativo strutturato in una narrazione simbolica che indica modelli morali da
seguire.
Questo scoprire il vuoto dei simboli
convenzionalmente evocati, e inconsapevolmente connessi con la rappresentazione
mentale delle persone che ce li hanno trasmessi e con le identità storiche che
abbiamo immaginato, è fare un’esperienza “adulta” della realtà e, se questo impatto
è sufficiente a far perdere la fede, allora vuol dire che il credo non
era fondato su una sostanza spirituale ma solo sul livello di senso
delle suggestioni immaginarie proprie del discorso che doveva veicolarlo
ed evocatrici di una serena armonia affettiva interiore, come è nell’infanzia
il sentirsi partecipe dell’immaginario amorevole e protettivo dei propri
genitori.
Una questione sulla quale ho riflettuto
in passato è che, in materia di esistenza di Dio, è virtualmente esclusa
una posizione neutra in partenza. Cerco di illustrare l’idea in estrema
sintesi con l’esempio costituito dal caso di chi si professa agnostico e si
pone in cammino o alla ricerca di una verità, sostenendo di essere nella
condizione neutra di chi “non sa” e cerca una risposta ai suoi quesiti. Ma la
sua neutralità tra credenti e non credenti è solo apparente: se ritiene di
poter giungere attraverso ragionamenti, logica e giudizi a definire Dio e la
sua esistenza, implicitamente ne sta negando la natura di incommensurabile, non
concepibile entro i limiti della ragione umana; dunque ha assunto inconsapevolmente
la prospettiva dell’ateo. Viceversa, se l’agnostico accetta l’incommensurabilità
della divinità, rinunciando a ridurla a oggetto di ragione, è già nella posizione
del credente.
A quanto sembra, la scelta di credere o
non credere – indipendentemente da quale sarà l’approdo di un cammino spirituale
o di un percorso di ragione – precede necessariamente le operazioni di
razionalizzazione nella mente di ciascuno.
Sulla base di mie osservazioni, avviate
a San Francisco nel 1993, sulla traccia di studi che Robert Ornstein stava
conducendo sui processi mentali nel plagio e nel fanatismo politico e
religioso, ho dedotto l’esistenza di due specifici stati funzionali
cerebrali all’origine dell’assetto mentale dell’ateo e del credente.
Ciascuno dei due quadri funzionali supporta e facilita il rinvenimento di
ragionamenti e prove a sostegno di ciascuna delle due convinzioni, perché gli
elementi trovati sono coerenti con i processi più probabili in quello stato
funzionale del cervello.
Quando è in gioco un’evocazione forte,
come quella sperimentata dagli astrofisici, si verifica una drastica
transizione di quadro funzionale, avvertito coscientemente come un cambiamento
di prospettiva. Un cambiamento può verificarsi anche in senso opposto, come
quando dal quadro mentale di certezza atea, per effetto di un evento, un
episodio o una circostanza vissuta come straordinaria si entra in uno stato di
Grazia, ossia nel quadro mentale del credente, come accade nella conversione.
37. Le peculiarità da Galileo ad Harvey di meccanismi mentali
collettivi nella dimensione della storia. L’opposizione alle tesi di Galileo e la resistenza
ad accettarle hanno avuto le loro ragioni nella rivalità che ha portato al complotto
ordito da Ludovico delle Colombe, e in argomentazioni a sostegno di una visione
conservatrice del cosmo, che ho considerato attraverso le ricostruzioni storiche
basate su documenti. Nell’insieme, queste ragioni possono essere descritte come
la dimensione cosciente del problema, ossia quanto è stato elaborato intenzionalmente
dai protagonisti e, attraverso gli atti della comunicazione, è entrato nella
coscienza collettiva del tempo e poi, grazie alle tracce scritte, nella storia.
Ma, anche se con una minore influenza sui fatti, fra le ragioni possiamo
riconoscere una tendenza psicologica, che appartiene all’ordine non
cosciente dei fenomeni psichici, e consiste nella spinta verso la conservazione
del conosciuto a discapito del non noto che potrebbe soppiantarlo. Una bias
che, come spesso accade, è sostenuta – o in parte espressa – da un atteggiamento
passivo o inerziale circa la possibilità di impegnarsi nella comprensione di
dimostrazioni e ragionamenti a sostegno del cambiamento.
L’incidenza di questa tendenza psicologica
nella classe medica inglese del Seicento ebbe un ruolo decisivo per il destino
delle scoperte di William Harvey, anatomista e pioniere della fisiologia della
circolazione del sangue.
È interessante a mio avviso soffermarsi
sulla vicenda di questo medico inglese, sia perché il suo saggio De motu cordis
et sanguinis in animalibus sarebbe poi diventato una pietra miliare nella
storia della fisiologia, e più in generale della scienza, sia per il ruolo
influente e spesso egemone della cultura inglese nel Seicento, cui ho già fatto
riferimento.
William Harvey era medico alla corte di
Re Giacomo I Stuart e già in rapporti di amicizia con il figlio Carlo, prossimo
erede al trono; dopo l’incoronazione crebbe la vicinanza tra i due e l’assiduità
della frequentazione con lo scambio di doni: Carlo regala un piatto d’argento di
una libbra e mezza a William, che ricambia con un barattolo di marmellata, come
si legge in un documento[12].
Per alcuni aspetti possiamo accostare
questa amicizia a quella tra Lorenzo de’ Medici e Leonardo da Vinci, anche se
Lorenzo era un abile politico mentre Carlo non si rivelò tale per i suoi
sudditi, e Leonardo era più di ogni altra cosa un artista, mentre William era
un medico ricercatore. In entrambe le diadi si realizzava un importante
sostegno materiale e morale per la conoscenza; nel caso dei due Inglesi, che si
sentivano simili fra loro e diversi dal mondo che li circondava, il principale
elemento di unione era la fede cristiana, in quanto entrambi erano animati da
una profonda spiritualità[13].
Andavano insieme a caccia nei parchi
reali e, quando il sovrano uccideva qualche cervo, lo metteva a disposizione
del medico per la dissezione. In proposito, riferendosi a Carlo, Harvey scrive:
“lui stesso si dilettava molto in questo tipo di curiosità e molte volte amava
essere un testimone oculare delle mie scoperte”[14].
L’autore di De motu cordis era estremamente abile nel maneggiare i bisturi,
tanto da essere stato incaricato dal Collegio Reale dei Medici di dare lezioni
di anatomia ai chirurghi[15], sicché
non ebbe difficoltà ad estrarre dall’utero di una femmina di cervo un minuscolo
embrione ancora pulsante per studiarne la fisiologia cardiovascolare.
Lo studio degli embrioni di varie specie
animali gli diede conferma delle sue tesi fondamentali, ossia che il sangue non
era prodotto dagli organi e in particolare dal fegato, momento per momento, ma
era soggetto a un moto con una direzione definita e tale flusso dipendeva dai
movimenti del cuore[16].
Harvey aveva maturato queste convinzioni già quando studiava a Padova con Girolamo
Fabrici o Fabrizio d’Acquapendente[17],
noto per aver scoperto le valvole venose e averne ipotizzato il ruolo di rallentatori
del passaggio del sangue nella direzione del flusso.
Harvey compì una verifica sperimentale dell’ipotesi
del suo maestro: inserendo delle sonde nelle vene rilevò che lo strumento
scorreva agevolmente quando era diretto verso il cuore, mentre nel verso
opposto si arrestava. L’ostacolo era dovuto al fatto che la spinta della sonda
faceva aprire le valvole come ombrelli, che occludevano il lume del vaso. Ne
dedusse che il sangue fluiva in direzione del cuore e che le valvole venose si
aprivano per ostacolarne il reflusso verso la periferia.
Questa scoperta metteva in crisi l’intero
modello di Galeno che, nonostante fosse stato concepito come ipotesi nel secondo
secolo d.C., quasi un millennio e mezzo prima, in mancanza di verifiche era stato
religiosamente conservato e trasmesso come una nozione che si era andata
irrigidendo, fin quasi a divenire un dogma. Secondo il celebre medico di
Pergamo il sangue fluiva in due sistemi di vasi separati, le arterie che dal
fegato produttore del sangue portavano il fluido rosso al cuore, e le vene che
dal cuore portavano il fluido bluastro agli organi periferici, compreso il cervello.
Nel cuore vi sarebbero stati dei piccoli pori sulla parete che separa le camere
cardiache che avrebbero consentito al sangue di passare dal settore arterioso
del cuore a quello venoso.
Salvando la distinzione tra arterie e
vene, che il medico inglese supponeva fossero attraversate dallo stesso sangue
che cambiava qualità e colore, tutto il resto gli parve ormai insostenibile.
Verificò la sua intuizione studiando pesci vivi, e vide che il sangue delle
vene entrava nel cuore e da questo passava nelle arterie, confermando la sua
ipotesi. Allora decise di sottoporre a vaglio sperimentale anche l’esistenza dei
minuti pori nella parete cardiaca che separa il cuore destro dal sinistro,
iniettando acqua nell’atrio di un cuore di bue: neanche una goccia d’acqua
passava dall’altra parte. La successiva conferma dell’esperimento lo portò a
concludere che gli ipotetici pori di Galeno non esistono.
Stabiliti questi fatti, Harvey mise a
punto un sistema per il calcolo del volume di sangue espulso dal cuore nelle arterie,
stimandolo in termini di peso. Risultò che ogni battito rilasciava mezza oncia
di fluido ematico nell’aorta, così che in mezz’ora il cuore avrebbe pompato tre
pound, cioè un chilo e 360 grammi, di sangue nell’aorta. Allora realizzò
il drenaggio di tutto il sangue di una pecora e al vaglio ponderale risultò un
totale di quattro pound (un chilo e 814 grammi). Sulla base di questi
dati non vi era altra possibilità: lo stesso sangue viene riciclato continuamente,
e dunque esiste una circolazione.
Ancora oggi nei trattati di fisiologia
che includono cenni storici introduttivi sono riprodotti i disegni, nella
grafica a stampa dell’epoca, delle prove condotte da Harvey comprimendo le vene
superficiali di un arto superiore umano e dimostrando la direzione del flusso e
la possibilità di svuotamento del vaso.
Dietro l’incrollabile fiducia che aveva
sostenuto negli esperimenti il medico della casa reale inglese durante tutto
quel tempo, vi era una convinzione della quale riferirà solo molto tempo dopo.
Filosofi empiristi e fisiologi britannici, ma anche di altri paesi, in quegli anni
parlavano di spiriti animali (animal spirits), facendoli talvolta
risalire a Galeno, che menzionava uno spirito del fegato, uno spirito del cuore
e uno spirito della testa, quali componenti vitali essenziali, talaltra ad
alcuni concetti sulle risorse funzionali dell’organismo espressi in questi
termini da Platone, ma in generale sottintendendo l’esistenza di una sorta di
energia misteriosa.
Ebbene Harvey, che riteneva gli spiriti
animali un comune “sotterfugio per l’ignoranza”, era certo che tutto ciò che si
attribuiva agli spiriti fosse riconducibile a proprietà e ruoli funzionali del
sangue.
Dopo aver esposto la sua teoria al College
of Physicians, nel 1628 pubblicò il saggio De motu cordis et sanguinis
in animalibus, in cui riportò gli esiti dei suoi studi con esaustiva
efficacia ed elegante precisione[18],
spiegando poi che l’idea di parlare di “circolazione” gli era stata suggerita dall’insegnamento
di Aristotele, che indicava il circolo o cerchio quale figura
perfetta della geometria[19].
Harvey fece di tutto per ottenere
benevolenza e approvazione da parte dei colleghi: dedicò il libro al College
of Physicians e scrisse che non lo avrebbe mai proposto all’estero prima di
sottoporlo al giudizio dei suoi pari connazionali, prima di aver risposto a loro
dubbi e obiezioni, o senza aver ottenuto un verdetto favorevole da parte del President
of the College. Ma, nonostante questa captatio benevolentiae
riguardosa e rispettosa, la maggioranza dei colleghi non mostrò alcun interesse
per il suo lavoro.
Solo dopo due anni arrivò il primo
commento scritto: una lapidaria stroncatura da parte del dottor James Primerose
che, dopo aver citato Galeno ed altri autorevoli medici, notava che le affermazioni
di Harvey erano in contrasto con quei principi e dunque erano sbagliate. Fine della
discussione[20].
La maggioranza dei medici non riteneva
il saggio degno di attenzione perché non presentava un’argomentazione teorica di
spessore nel lessico specialistico dell’epoca e proponeva rozzi calcoli di pesi
e volumi in rapporto al tempo; altri osservarono che tutti i dati più
significativi sull’uomo provenivano da autopsie e dunque non potevano considerarsi
attendibili per la fisiologia degli organismi vivi; solo alcuni, infine, posero
degli interrogativi fondati.
La prima domanda fu questa: se il sangue
circola e dalle arterie ritorna alle vene, come e dove avviene questo ritorno? Domanda
alla quale Harvey non poteva rispondere, e che avrebbe richiesto ancora studi e
scoperte. Poi gli fu chiesto quale fosse il fine – oggi diremmo biologico –
della circolazione, a fronte della descrizione di un ciclo continuo. Ma il
quesito più delicato fu formulato in modo brutalmente semplice: perché un
medico dovrebbe interessarsi al fatto che il sangue circoli? Ovvero, in che
modo sapere della circolazione del sangue cambia la pratica medica?
Quest’ultimo quesito ci riporta alla tendenza
psicologica alla conservazione di ciò che è noto; la domanda è sottesa da
un atteggiamento psicologico che sembra dire: se non sono costretto da un
cambiamento della pratica, non voglio nemmeno sapere di questa scoperta.
Fuori dell’Inghilterra la tesi della
circolazione del sangue non incontrò opposizioni preconcette e fu accettata con
entusiasmo da Cartesio, che la ritenne del tutto plausibile e compatibile con
la nuova visione meccanica del corpo. Ma Harvey non diede peso all’opinione del
filosofo, sia perché non riconosceva autorevolezza in questo campo a un
pensatore che non era né medico né anatomista[21],
sia perché considerava la concezione meccanica delle funzioni dell’organismo una
moda passeggera e non un paradigma scientifico.
John Aubrey, amico di William Harvey, riferisce
dell’opposizione pregiudiziale, dell’avversione, dell’astio e dell’invidia dei
colleghi suscitata dalla pubblicazione del saggio, osservando che i detrattori
non formulavano obiezioni scientifiche, ma invettive personali. E, per questo
motivo, Harvey scelse di non replicare dichiarando: “Io penso che sia una cosa
indegna di un filosofo e ricercatore della verità restituire cattive parole per
cattive parole”[22].
Di fatto si astenne da ogni risposta per venti anni.
Amareggiato per una tanto inattesa
quanto sfavorevole accoglienza della sua scoperta, il fisiologo si immerse nei suoi
studi, dedicandosi all’embriogenesi e alla comprensione dei processi legati
alla distribuzione del fluido vitale negli insetti, stabilendo differenze e
similitudini con i vertebrati. Per superare la delusione, si rifugiò negli
affetti, e l’amicizia con Carlo I ebbe un ruolo importante, anche perché il
monarca era un entusiasta sostenitore della teoria della circolazione del sangue,
ritenendosi in qualche modo partecipe della scoperta.
Carlo era venuto a sapere di un caso eccezionale,
di cui si parlava a corte come nei salotti dei nobili inglesi, che riguardava
il giovane visconte Montgomery: per una gravissima ferita riportata in una
caduta da cavallo era andato incontro alla distruzione traumatica e necrotica
di una zona circoscritta della parete toracica; per prevenire conseguenze
mortali, il chirurgo aveva asportato i frammenti ossei e i tessuti molli
lacerati e in necrosi, lasciando un’apertura dai bordi cicatrizzati, una sorta
di piccola finestra sulla cavità toracica, che decise di ricoprire con una placca
metallica rimuovibile. Carlo fece in modo che il suo amico medico potesse
incontrare il giovane nobile per rendersi conto di persona, stimare lo stato
clinico e magari formulare una prognosi.
Quando incontra il visconte Montgomery,
Harvey rimane impressionato dal suo perfetto stato di salute e di forma, nonché
stupito allorché il giovane spontaneamente rimuove la placca per mostrargli l’esito
del trauma, e in proposito scrive: “Vidi immediatamente un vasto foro”[23].
Attraverso quella eccezionale finestra sulla
fisiologia cardiorespiratoria, il medico di corte non solo può vedere le
contrazioni di un cuore vivo e pulsante, ma può anche introdurre il pollice e
altre tre dita per una delicata palpazione e, soprattutto, per percepire al
tatto dalla superfice pericardica l’ingresso del sangue con l’espansione diastolica
dell’atrio e la fuoriuscita con la contrazione sistolica del ventricolo[24]. Contemporaneamente,
con l’altra mano, Harvey palpava il polso, rilevando l’arrivo della pulsazione
un istante dopo la contrazione del cuore, come prevedeva il modello di
fisiologia cardiovascolare descritto nel De motu cordis.
Aveva ricevuto una straordinaria conferma
della sua scoperta: il battito cardiaco è causa ed effetto della circolazione
del sangue, che viene espulso con forza nelle arterie e poi ritorna attraverso
le vene, consentendo al cuore di espellerlo nuovamente in un ritmo incessantemente
propagato a tutto l’organismo. Harvey stesso racconta che, invece di fornire un
resoconto dell’esperienza, decise di portare il giovane gentiluomo in persona
da Carlo I, in modo che potesse vedere e toccare con mano quanto lui aveva
rilevato in questo caso più unico che raro. E così fece.
Il nipote di Maria Stuarda e marito
della principessa Enrichetta di Francia, dopo aver percepito il battito del cuore
di Montgomery e avergli detto che avrebbe tanto voluto percepire allo stesso
modo il cuore e i pensieri della sua nobiltà, divenne il più strenuo
sostenitore della teoria della circolazione del sangue.
Lo scoppio della Guerra Civile Inglese, in
cui le forze antimonarchiche parlamentari si coalizzarono con i puritani che
accusavano il sovrano di politiche religiose filocattoliche, si abbatté come una
catastrofe distruttiva su di loro. Harvey fu colpito nel corpo da una ferita che
non guarì mai e nell’animo dal saccheggio della sua casa, e soprattutto dal
furto degli appunti di una vita di ricerca, mentre Carlo I Stuart fu catturato,
processato, condannato e decapitato con l’accusa di alto tradimento[25].
Con la morte di Carlo si chiuse un periodo
di grande sviluppo artistico, culturale e scientifico, e finì il mondo in cui
Harvey aveva sviluppato il suo ingegno e la sua scienza. Il sovrano amava l’Italia
e ne aveva imitato lo stile culturale, divenendo mecenate di artisti. Aveva molti
quadri di Tiziano, il suo pittore preferito, e aveva chiamato a corte Frans
Hals e Pieter Paul Rubens, il quale non rimase a Londra, a differenza del suo
allievo Antoon Van Dyck, che divenne pittore di corte e principale ritrattista
di Carlo. Ospitò Orazio Gentileschi e la figlia Artemisia, cercando di attrarre
a Londra anche Gian Lorenzo Bernini, che accettò solo di fargli un busto a
distanza, ricavando le sue fattezze dall’opera di Van Dyck intitolata Triplo
Ritratto di Carlo I.
Harvey rimase a curare i membri ammalati
di quella che era stata la corte di una monarchia ormai deposta e narra di aver
avuto pazienti con piaghe, tifo e malaria, ma di aver visto più gente morire di
grief of mind, ossia di dolore morale, che di qualsiasi altra malattia[26]. Anche
la sua tristezza, e una presumibile condizione depressiva, si aggravarono con
la morte della moglie e poi con il licenziamento dall’Ospedale di San
Bartolomeo, deliberato dal Parlamento Repubblicano in ragione della sua
amicizia col sovrano giustiziato. Solo quando ebbe un incarico ad Oxford, dove
poté insegnare la sua teoria della circolazione del sangue ed avere come
allievo il brillante e intraprendente Thomas Willis, futuro scopritore del
poligono arterioso cerebrale, recuperò poco per volta il suo tono dell’umore e
trovò un nuovo equilibrio.
Sul finire della vita, Harvey ebbe la
soddisfazione del riconoscimento unanime del valore della sua scoperta e dei
suoi metodi di ricerca in fisiologia. Hobbes scrisse che Harvey è “forse l’unico
uomo che ha vissuto tanto da vedere la propria dottrina riconosciuta mentre era
ancora in vita”[27].
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-16 ottobre 2021
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Cartesio, come abbiamo visto in
precedenza col brano che ho citato dal suo Discorso sul metodo, è preoccupato
per il trattamento ricevuto da Galileo Galilei e apertamente lo dichiara, evitando
con cura di urtare la suscettibilità delle autorità religiose nello sviluppo puramente
logico delle sue tesi.
[2] Anche se a scuola il Galileo
letterato si studia, come provano i testi scolastici di letteratura italiana e
di antologia letteraria, questo aspetto rimane in ombra.
[3] Come nei terrapiattisti e in tutti
gli altri irrazionalisti di oggi, credo che la questione principale non sia
costituita dalle razionalizzazioni che adottano, ma dal meccanismo psicologico
di rifiuto della realtà.
[4] Roberto Bellarmino non si
concepì mai quale “Principe della Chiesa”, nonostante i suoi alti incarichi vaticani,
e cercando la perfezione cristiana, seguì quanto Gesù aveva detto al giovane
ricco e, donando tutti i suoi averi ai poveri, visse nella povertà la sua
missione, seguendo la “via stretta” penitenziale in sincera e profonda comunione
spirituale col Signore. Canonizzato come San Roberto il 29 giugno del 1930 da
Papa Pio XI.
[5] Per vincere la resistenza
psicologica sarebbe stato necessario entrare nell’ottica di Galileo, ossia rendere
cosciente l’evidenza di una differenza di oggetto tra fisica e metafisica,
e così valutare alla luce di tale separazione il valore di una dottrina
cosmologica.
[6] Concettualmente potrebbe essere
ricondotta a una parte del funzionamento psichico associato alla spiritualità (cfr.
La ricerca dello spirito nel cervello nella sezione “IN CORSO” del sito).
[7] Immanuel Kant, Lezioni di
psicologia, pp. 54-55, Laterza, Bari 1986. Cfr. Immanuel Kant, Il
Conflitto delle Facoltà, Morcelliana, Brescia 1994.
[8] Immanuel Kant, Logica, p.
60, Laterza, Bari 1990.
[9] Immanuel Kant, Critica della
ragion pura, p. 332, Laterza, Bari 1972.
[10] Mi rifaccio prevalentemente a
conversazioni con astronomi tenute presso la libreria “Edison” (attuale “Feltrinelli
Red”) in Piazza della Repubblica in Firenze.
[11] Particolarmente quando questi
eventi hanno luogo fuori della cornice
narrativa che evoca tutti valori simbolici messi in gioco dalla cultura acquisita
fin dalla più tenera età in ambito familiare. Un tempo, quando vi erano costumi sessuali legati
alla formazione di una coppia genitoriale e non erano precoci e indiscriminati
per fine di puro piacere come oggi, questo effetto di verità materiale era
esperito da molti anche al primo rapporto sessuale.
[12] Ho tratto e tradotto la maggior
parte dei fatti biografici su Harvey da Sir D’Arcy Power, William Harvey,
T. Fisher Unwin, London 1897, un classico al quale fanno riferimento quasi
tutti i biografi; ho poi consultato le pp. 161-162 del Tomo II di Roy Porter, Dizionario
Biografico della Storia della Medicina e delle Scienze Naturali, Franco
Maria Ricci, Milano 1987; e, infine, William Osler, L’Evoluzione della
Medicina Moderna, Sampognaro & Pupi, Siracusa 2010.
[13] Carlo I Stuart è venerato quale
santo dalla Chiesa Anglicana, che ne celebra la ricorrenza nel giorno del suo
martirio, il 30 di gennaio.
[14] Cit. in Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain
and How It Changed the World, p. 72 (Tr.d.A.), Free Press (Simon & Schuster),
New York 2004.
[15] In Inghilterra i chirurghi non
erano medici come in Italia, ma degli empirici che imparavano per imitazione come
un mestiere, ossia un’attività in cui il braccio prevale sulla mente, dei rozzi
e grossolani sistemi per asportare da un corpo parti malate o traumatizzate e
non guaribili. Spesso, dove non vi erano medici laureati, i chirurghi tendevano
a sostituirli, pur mancando di conoscenze per diagnosticare le malattie e indicare
terapie non chirurgiche.
[16] Secondo Galeno il sangue veniva consumato
dagli organi e dai tessuti e rigenerato grazie all’apporto alimentare.
[17] Oggi è ricordato per aver scoperto
l’organo detto appunto detto Borsa di Fabrizio, che negli uccelli è sede
della produzione dei linfociti B, prodotti nei mammiferi dagli analoghi borsali
e contrapposti ai linfociti T originati nel timo.
[18] Cfr. Carl Zimmer, op. cit., p. 72.
[19] All’Università di Padova era diventato
esperto del pensiero di Aristotele, perché sei dei suoi diciotto professori erano
grandi studiosi del filosofo di Stagira.
[20] Cfr. Carl Zimmer, op. cit., p. 73.
[21] Harvey non riconosceva valore
alle esperienze di dissezione condotte dal matematico francese come “dilettante”.
[22] Carl Zimmer, op. cit., p. 74.
[23] Sir D’Arcy Power, op cit., ripreso
da Carl Zimmer, op. cit., p. 74.
[24] Come si legge in D’Arcy, prima
di quel momento lo stesso Harvey aveva scritto di essere “quasi tentato di pensare
che il movimento del cuore possa essere compreso solo da Dio”.
[25] Adriano Prosperi e Paolo Viola, Dalla
Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese, p. 3, Einaudi, Torino 2000.
[26] Cfr. Carl Zimmer, op. cit., p. 76.
[27] Cit. in Carl Zimmer, op. cit., p.
119.