Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 16 ottobre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Diciottesima Parte)

 

36. Meccanismi mentali ed effetti dell’osservazione astronomica sulla psicologia del credo religioso. Nel Seicento il rigore della ragione, se da un canto crea le prassi logico-empiriche fondando il pragmatismo anglosassone, dall’altro consente all’affidabilità del pensiero matematico di incontrare la certezza della fede nella dimensione della purezza, come accade in Cartesio[1]. Lo stesso Galileo, che rifiuta la sottomissione alla “pratica della lettera” di stampo farisaico affermatasi in buona parte delle gerarchie ecclesiali, esprime una sostanzialità fideistica nel cercare di compiere con l’arte letteraria la bellezza della conoscenza ottenuta leggendo con la logica matematica i fenomeni del mondo fisico[2].

Non sono il solo che avrebbe voluto incontrare di persona nella vita reale quei soggetti storici che negavano l’esistenza delle macchie solari e il moto di rivoluzione della Terra, per studiarne la psicologia, per comprendere le esigenze mentali sottostanti le argomentazioni razionali[3]. Da ragazzo, quando a scuola studiavo Galileo Galilei, pensavo che costoro non fossero veri credenti se ritenevano che la fede avesse bisogno di essere protetta con la negazione della realtà. Oggi credo che quel giudizio non fosse tanto lontano dal vero, perché chi attribuisce all’interpretazione letterale, e dunque alla forma, di un contenuto marginale del testo biblico che non fa parte né della Legge ebraica né degli argomenti trattati da Gesù Cristo nella sua predicazione evangelica, un ruolo decisivo per stabilire se si è eretici o credenti nella rivelazione, ha spostato nella sua mente il valore di verità dalla sostanza dei comandamenti ai costrutti della cultura religiosa elaborata dall’uomo.

Ma l’aspetto che più mi interessa è cercare di capire – prescindendo da coloro che si imponevano questo atteggiamento indipendentemente dal proprio intimo convincimento, recitando una “parte in commedia” per ferma adesione politica all’intransigenza religiosa come strumento di difesa ideologica – cosa accadeva nella mente di quanti vivevano una sincera spiritualità di sostanza, come Bellarmino[4], e tuttavia ritenevano per sé stessi e per gli altri necessario impedire al pensiero di concepire alcun aspetto della realtà fuori di una rigida costrizione dogmatica.

Convinto che la struttura elementare dei processi mentali, come il cervello stesso, non vari molto nei secoli e nei millenni e che la gamma degli atteggiamenti psicologici di fondo sia sostanzialmente la stessa ai nostri giorni, credo che non sia azzardato tentare deduzioni inferenziali dalla psicologia dei nostri contemporanei.

Attingendo alle mie osservazioni su pazienti psichiatrici e neuropsicologici, e soprattutto allo studio informale di numerose persone in un’apparentemente perfetta salute mentale, deduco l’esistenza di un bisogno di “intoccabilità”, più o meno espresso, più o meno attuale, più o meno sentito quale urgenza dalle diverse persone e al variare degli stati d’animo, ma sempre presente. Se posso dar credito alla mia esperienza, devo dedurre la presenza in ciascuno di noi, come bias, dell’esigenza di avere qualcosa nel mondo interiore, che possiamo provare a definire in termini di qualità di un oggetto mentale, che debba essere rispettata al punto da non sottoporla a vaglio critico.

Mi rammenta, questa intoccabilità, la difficoltà e quasi l’impossibilità di alcune persone a pronunciare il nome di battesimo del proprio padre, rilevata e generalizzata in stile freudiano come meccanismo psichico inconscio da Jacques Lacan, che per descriverla, distinguendola da una vera e propria inibizione, adottava un termine del diritto britannico, forclusion, impiegato spesso per indicare una particolare preclusione condizionata per l’accesso ad un bene, diversa da un impedimento assoluto o un’interdizione.

In altri termini, per il modo in cui era stato appreso il sistema tolemaico fin dall’infanzia, molti avvertivano, senza esserne del tutto consapevoli, una resistenza interiore a metterlo in discussione, come se fosse preclusa l’entrata nella coscienza, ossia nell’esplicita consapevolezza critica, del suo status di oggetto mentale intoccabile. E per poter violare questa preclusione, o superare questo impedimento, costoro cercavano delle buone ragioni. Si comprende che, trovando nelle ragioni della cultura, e dunque nel patrimonio della coscienza, ragioni opposte che di fatto legavano alla sacralità oggettiva e non psicologica delle venerate scritture bibliche quel modello cosmologico, avessero una così grande resistenza ad abbandonare convinzioni fondate su uno stato della mente collegato all’equilibrio degli apprendimenti precoci[5].

Quanto questa tendenza rappresenti una predisposizione al sacro e quanto la si possa ridurre all’attività di reti neuroniche principalmente localizzate fra aree in passato ascritte al circuito limbico o “cervello emozionale”, è tutto da verificare e discutere, ma personalmente non dubito della sua esistenza[6]. Quale eccezione che confermerebbe la regola, ho rilevato la sua apparente assenza o remota evocabilità in due persone diagnosticate di disturbo psicopatico di personalità con segni di ipotrofia o mancato sviluppo alle scansioni cerebrali in risonanza magnetica nucleare (RMN) di strutture cerebrali generalmente ipoevolute nei sociopatici, e la cui atrofia è associata ai deficit di capacità empatica, di rispetto del valore della vita, di reazione di paura motivata in circostanze di pericolo oggettivo e di risposta ansiosa per effetto di stress.

Ci si può anche interrogare sul perché nessuno di tanti fini intelletti, come Bellarmino e anche lo stesso Urbano VIII studioso di filosofia cristiana, oltre che della stessa fisica galileiana, abbia mai portato alla propria coscienza la resistenza psicologica e non razionale ad accettare il modello copernicano.

La risposta può essere immediata: un secolo dopo, quando Immanuel Kant con il suo Saggio sulle malattie della mente propone una prima forma di prospettiva psicologica nella lettura dei processi mentali, i sui contemporanei non mostrarono alcuna sensibilità per l’argomento. Anche se Kant nelle sue Lezioni di psicologia si era spinto fino a indagare il “potere dell’animo di padroneggiare i sentimenti morbosi con il semplice fermo proponimento”[7] in quella sezione degli studi intitolata Conflitto delle Facoltà in cui propone il ritorno alla dietetica dell’anima, nella sua visione complessiva sul sapere umano non era mai giunto a riconoscere al pensiero psicologico la dignità di uno strumento di conoscenza. Infatti, nella Logica lo considera un mero opinare, ossia un “tener-per-vero in base a un fondamento di conoscenza che non è sufficiente né soggettivamente né oggettivamente”[8]. E nella Critica della ragion pura precisa ulteriormente che “non c’è una psicologia razionale come dottrina, che procuri un’aggiunta alla nostra conoscenza di noi stessi, ma solo come disciplina, che pone in questo campo alla ragione speculativa limiti insormontabili”[9].

Dunque, è facile supporre che un secolo prima non esistesse nemmeno traccia di un pensiero psicologico e, soprattutto, della distinzione tra il livello riflessivo del pensiero cosciente e il resto della psiche. Non si può dimenticare che al tempo di Galileo la pedagogia religiosa, seguendo una tradizione di millenni, tendeva a identificare la psiche con la volizione preposta al dominio degli istinti confinati nel corpo.

Ma è vero che studiare l’astronomia considerando ciò che si esplora fuori da un inquadramento dogmatico di senso che racchiuda nella narrazione di una cornice metafisica i corpi celesti e lo spazio, come faceva Galileo e continuiamo a fare oggi, induce all’ateismo o quanto meno all’agnosticismo? Da quale esperienza o da quale intuizione proviene questa idea che circolava nella Chiesa? Con ogni probabilità l’idea deriva dall’esperienza personale di alcuni astronomi, i quali, peraltro, erano in maggioranza appartenenti al clero. Ho provato a chiedermi: cosa accade nella mente di chi studia l’astronomia?[10]

Una prima distinzione va fatta tra chi segue delle lezioni e studia qualche argomento, come abbiamo fatto tutti al liceo, contemporaneamente dedicandoci a tutte le altre materie scolastiche, e chi letteralmente si immerge in questo campo, come nel caso di chi si dedica all’astrofisica professionalmente, attualizzando con regolari osservazioni telescopiche una realtà materialmente lontana dalla nostra quotidianità. Le mie osservazioni si riferiscono al secondo caso.

Un astrofisico di mezza età mi riferiva che da giovane aveva avuto come una sorta di rivelazione nelle sue lunghe osservazioni telescopiche notturne: una presa di coscienza di una realtà potenzialmente infinita, che sfugge al controllo dell’uomo e rende piccoli, relativi e insignificanti tutti i prodotti della cultura umana, comprese religione, arte e filosofia. Era così diventato ateo, ritenendo che un Dio a misura d’uomo come quello delle religioni monoteiste non fosse compatibile con una realtà incommensurabilmente più grande, in cui la Terra appare come un piccolissimo trascurabile puntolino nella miriade incalcolabile di pianeti di cui sono probabilmente popolate le galassie dell’universo.

Un altro astrofisico, più giovane, mi ha parlato di un’esperienza di progressivo distacco dal credo religioso avvenuta immergendosi nelle osservazioni e in teorie che invaliderebbero anche la concezione del big bang: nel cielo osservabile e negli universi concepibili non aveva trovato segni, tracce o prove in grado di suggerire l’ordine cosmico come creato e la presenza di un essere vivente di natura non biologica ma immateriale, in grado di assumere in sé tutto l’esistente, e le cui dimensioni vadano oltre il concetto stesso di spazio-tempo.

Un terzo astrofisico, mi ha detto che l’osservazione del cielo aiuta a staccarsi dagli eventi del mondo che assorbono la mente di tutti noi e rende evidente che, nella storia, l’umanità si è nutrita di grandi narrazioni che hanno costituito l’orizzonte del pensiero comune; i progressi della scienza hanno reso la filosofia desueta quale esercizio della ragione su contenuti narrativi e la si è accantonata come strumento per dare risposta ai grandi interrogativi dell’uomo, che trovano modo di riformularsi nei termini provvisori delle prassi sperimentali. A partire dalla teoria della relatività generale – secondo lui – si sarebbe dischiusa come evidenza una realtà in cui non c’è più posto per un sapere narrativo acriticamente legato alla tradizione, come quello religioso, se non nelle forme dell’arte e del gioco; condizioni in cui non è in questione la verità, ma solo il piacere dell’intelletto e il divertimento.

Altre testimonianze dell’esperienza personale di astronomi e osservatori dei corpi celesti sono state più o meno dello stesso tenore di quelle che ho appena riferito, così ho scelto di assumerle come significative, se non addirittura paradigmatiche, della reazione psicologica che volevo indagare. Cercando di immaginare lo stato funzionale della cognizione cosciente che ha generato le considerazioni che ho riportato, credo di poter riconoscere, quale elemento comune, un effetto di verità generato dalla realtà fisica esplorabile con la vista e dalle sue interpretazioni sviluppate nella rigorosa chiave della logica matematica, che per la mente di uno studioso sono l’equivalente di un’evidenza. In questa ottica o “stato mentale” è come se l’astronomo si trovasse di fronte a questa alternativa: cosa è più vero, quello che si scrive o si dice sulla base di un’antica tradizione, o quello che vedi con i tuoi occhi e quello che puoi desumere ragionando su una realtà incommensurabile, che va avanti da miliardi di miliardi di anni e così andrà avanti ancora, forse senza una fine, ma in cui tutto è regolato da causalità fisica.

Pur senza avere il supporto delle conoscenze attuali e rimanendo semplicemente all’effetto dell’osservazione telescopica del cielo e dei corpi celesti, si può ritenere che un simile effetto di verità evocato dall’impatto con la realtà naturale possa essere stato esperito anche al tempo di Galileo Galilei. Probabilmente, l’aver esperito personalmente questo effetto deve avere indotto dei religiosi a considerare l’astronomia un rischio per le coscienze dei fedeli.

Anche se l’evocazione di questo effetto di rivelazione materiale, che possiamo accostare anche alle reazioni psicologiche indotte dall’assistere per la prima volta a un parto o alla morte di una persona[11], è di fatto possibile solo se la fede non è radicata in una coscienza adulta del senso posto in gioco dall’esistenza di un essere soprannaturale che costituisce il supremo ente morale. In altri termini, questo effetto del mondo fisico che cancella la spiritualità è possibile in coloro per i quali il credere in Dio non è parte della propria identità, ma solo il portato di un apprendimento educativo strutturato in una narrazione simbolica che indica modelli morali da seguire.

Questo scoprire il vuoto dei simboli convenzionalmente evocati, e inconsapevolmente connessi con la rappresentazione mentale delle persone che ce li hanno trasmessi e con le identità storiche che abbiamo immaginato, è fare un’esperienza “adulta” della realtà e, se questo impatto è sufficiente a far perdere la fede, allora vuol dire che il credo non era fondato su una sostanza spirituale ma solo sul livello di senso delle suggestioni immaginarie proprie del discorso che doveva veicolarlo ed evocatrici di una serena armonia affettiva interiore, come è nell’infanzia il sentirsi partecipe dell’immaginario amorevole e protettivo dei propri genitori.

Una questione sulla quale ho riflettuto in passato è che, in materia di esistenza di Dio, è virtualmente esclusa una posizione neutra in partenza. Cerco di illustrare l’idea in estrema sintesi con l’esempio costituito dal caso di chi si professa agnostico e si pone in cammino o alla ricerca di una verità, sostenendo di essere nella condizione neutra di chi “non sa” e cerca una risposta ai suoi quesiti. Ma la sua neutralità tra credenti e non credenti è solo apparente: se ritiene di poter giungere attraverso ragionamenti, logica e giudizi a definire Dio e la sua esistenza, implicitamente ne sta negando la natura di incommensurabile, non concepibile entro i limiti della ragione umana; dunque ha assunto inconsapevolmente la prospettiva dell’ateo. Viceversa, se l’agnostico accetta l’incommensurabilità della divinità, rinunciando a ridurla a oggetto di ragione, è già nella posizione del credente.

A quanto sembra, la scelta di credere o non credere – indipendentemente da quale sarà l’approdo di un cammino spirituale o di un percorso di ragione – precede necessariamente le operazioni di razionalizzazione nella mente di ciascuno.

Sulla base di mie osservazioni, avviate a San Francisco nel 1993, sulla traccia di studi che Robert Ornstein stava conducendo sui processi mentali nel plagio e nel fanatismo politico e religioso, ho dedotto l’esistenza di due specifici stati funzionali cerebrali all’origine dell’assetto mentale dell’ateo e del credente. Ciascuno dei due quadri funzionali supporta e facilita il rinvenimento di ragionamenti e prove a sostegno di ciascuna delle due convinzioni, perché gli elementi trovati sono coerenti con i processi più probabili in quello stato funzionale del cervello.

Quando è in gioco un’evocazione forte, come quella sperimentata dagli astrofisici, si verifica una drastica transizione di quadro funzionale, avvertito coscientemente come un cambiamento di prospettiva. Un cambiamento può verificarsi anche in senso opposto, come quando dal quadro mentale di certezza atea, per effetto di un evento, un episodio o una circostanza vissuta come straordinaria si entra in uno stato di Grazia, ossia nel quadro mentale del credente, come accade nella conversione.

 

37. Le peculiarità da Galileo ad Harvey di meccanismi mentali collettivi nella dimensione della storia. L’opposizione alle tesi di Galileo e la resistenza ad accettarle hanno avuto le loro ragioni nella rivalità che ha portato al complotto ordito da Ludovico delle Colombe, e in argomentazioni a sostegno di una visione conservatrice del cosmo, che ho considerato attraverso le ricostruzioni storiche basate su documenti. Nell’insieme, queste ragioni possono essere descritte come la dimensione cosciente del problema, ossia quanto è stato elaborato intenzionalmente dai protagonisti e, attraverso gli atti della comunicazione, è entrato nella coscienza collettiva del tempo e poi, grazie alle tracce scritte, nella storia. Ma, anche se con una minore influenza sui fatti, fra le ragioni possiamo riconoscere una tendenza psicologica, che appartiene all’ordine non cosciente dei fenomeni psichici, e consiste nella spinta verso la conservazione del conosciuto a discapito del non noto che potrebbe soppiantarlo. Una bias che, come spesso accade, è sostenuta – o in parte espressa – da un atteggiamento passivo o inerziale circa la possibilità di impegnarsi nella comprensione di dimostrazioni e ragionamenti a sostegno del cambiamento.

L’incidenza di questa tendenza psicologica nella classe medica inglese del Seicento ebbe un ruolo decisivo per il destino delle scoperte di William Harvey, anatomista e pioniere della fisiologia della circolazione del sangue.

È interessante a mio avviso soffermarsi sulla vicenda di questo medico inglese, sia perché il suo saggio De motu cordis et sanguinis in animalibus sarebbe poi diventato una pietra miliare nella storia della fisiologia, e più in generale della scienza, sia per il ruolo influente e spesso egemone della cultura inglese nel Seicento, cui ho già fatto riferimento.

William Harvey era medico alla corte di Re Giacomo I Stuart e già in rapporti di amicizia con il figlio Carlo, prossimo erede al trono; dopo l’incoronazione crebbe la vicinanza tra i due e l’assiduità della frequentazione con lo scambio di doni: Carlo regala un piatto d’argento di una libbra e mezza a William, che ricambia con un barattolo di marmellata, come si legge in un documento[12].

Per alcuni aspetti possiamo accostare questa amicizia a quella tra Lorenzo de’ Medici e Leonardo da Vinci, anche se Lorenzo era un abile politico mentre Carlo non si rivelò tale per i suoi sudditi, e Leonardo era più di ogni altra cosa un artista, mentre William era un medico ricercatore. In entrambe le diadi si realizzava un importante sostegno materiale e morale per la conoscenza; nel caso dei due Inglesi, che si sentivano simili fra loro e diversi dal mondo che li circondava, il principale elemento di unione era la fede cristiana, in quanto entrambi erano animati da una profonda spiritualità[13].

Andavano insieme a caccia nei parchi reali e, quando il sovrano uccideva qualche cervo, lo metteva a disposizione del medico per la dissezione. In proposito, riferendosi a Carlo, Harvey scrive: “lui stesso si dilettava molto in questo tipo di curiosità e molte volte amava essere un testimone oculare delle mie scoperte”[14]. L’autore di De motu cordis era estremamente abile nel maneggiare i bisturi, tanto da essere stato incaricato dal Collegio Reale dei Medici di dare lezioni di anatomia ai chirurghi[15], sicché non ebbe difficoltà ad estrarre dall’utero di una femmina di cervo un minuscolo embrione ancora pulsante per studiarne la fisiologia cardiovascolare.

Lo studio degli embrioni di varie specie animali gli diede conferma delle sue tesi fondamentali, ossia che il sangue non era prodotto dagli organi e in particolare dal fegato, momento per momento, ma era soggetto a un moto con una direzione definita e tale flusso dipendeva dai movimenti del cuore[16]. Harvey aveva maturato queste convinzioni già quando studiava a Padova con Girolamo Fabrici o Fabrizio d’Acquapendente[17], noto per aver scoperto le valvole venose e averne ipotizzato il ruolo di rallentatori del passaggio del sangue nella direzione del flusso.

Harvey compì una verifica sperimentale dell’ipotesi del suo maestro: inserendo delle sonde nelle vene rilevò che lo strumento scorreva agevolmente quando era diretto verso il cuore, mentre nel verso opposto si arrestava. L’ostacolo era dovuto al fatto che la spinta della sonda faceva aprire le valvole come ombrelli, che occludevano il lume del vaso. Ne dedusse che il sangue fluiva in direzione del cuore e che le valvole venose si aprivano per ostacolarne il reflusso verso la periferia.

Questa scoperta metteva in crisi l’intero modello di Galeno che, nonostante fosse stato concepito come ipotesi nel secondo secolo d.C., quasi un millennio e mezzo prima, in mancanza di verifiche era stato religiosamente conservato e trasmesso come una nozione che si era andata irrigidendo, fin quasi a divenire un dogma. Secondo il celebre medico di Pergamo il sangue fluiva in due sistemi di vasi separati, le arterie che dal fegato produttore del sangue portavano il fluido rosso al cuore, e le vene che dal cuore portavano il fluido bluastro agli organi periferici, compreso il cervello. Nel cuore vi sarebbero stati dei piccoli pori sulla parete che separa le camere cardiache che avrebbero consentito al sangue di passare dal settore arterioso del cuore a quello venoso.

Salvando la distinzione tra arterie e vene, che il medico inglese supponeva fossero attraversate dallo stesso sangue che cambiava qualità e colore, tutto il resto gli parve ormai insostenibile. Verificò la sua intuizione studiando pesci vivi, e vide che il sangue delle vene entrava nel cuore e da questo passava nelle arterie, confermando la sua ipotesi. Allora decise di sottoporre a vaglio sperimentale anche l’esistenza dei minuti pori nella parete cardiaca che separa il cuore destro dal sinistro, iniettando acqua nell’atrio di un cuore di bue: neanche una goccia d’acqua passava dall’altra parte. La successiva conferma dell’esperimento lo portò a concludere che gli ipotetici pori di Galeno non esistono.

Stabiliti questi fatti, Harvey mise a punto un sistema per il calcolo del volume di sangue espulso dal cuore nelle arterie, stimandolo in termini di peso. Risultò che ogni battito rilasciava mezza oncia di fluido ematico nell’aorta, così che in mezz’ora il cuore avrebbe pompato tre pound, cioè un chilo e 360 grammi, di sangue nell’aorta. Allora realizzò il drenaggio di tutto il sangue di una pecora e al vaglio ponderale risultò un totale di quattro pound (un chilo e 814 grammi). Sulla base di questi dati non vi era altra possibilità: lo stesso sangue viene riciclato continuamente, e dunque esiste una circolazione.

Ancora oggi nei trattati di fisiologia che includono cenni storici introduttivi sono riprodotti i disegni, nella grafica a stampa dell’epoca, delle prove condotte da Harvey comprimendo le vene superficiali di un arto superiore umano e dimostrando la direzione del flusso e la possibilità di svuotamento del vaso.

Dietro l’incrollabile fiducia che aveva sostenuto negli esperimenti il medico della casa reale inglese durante tutto quel tempo, vi era una convinzione della quale riferirà solo molto tempo dopo. Filosofi empiristi e fisiologi britannici, ma anche di altri paesi, in quegli anni parlavano di spiriti animali (animal spirits), facendoli talvolta risalire a Galeno, che menzionava uno spirito del fegato, uno spirito del cuore e uno spirito della testa, quali componenti vitali essenziali, talaltra ad alcuni concetti sulle risorse funzionali dell’organismo espressi in questi termini da Platone, ma in generale sottintendendo l’esistenza di una sorta di energia misteriosa.

Ebbene Harvey, che riteneva gli spiriti animali un comune “sotterfugio per l’ignoranza”, era certo che tutto ciò che si attribuiva agli spiriti fosse riconducibile a proprietà e ruoli funzionali del sangue.

Dopo aver esposto la sua teoria al College of Physicians, nel 1628 pubblicò il saggio De motu cordis et sanguinis in animalibus, in cui riportò gli esiti dei suoi studi con esaustiva efficacia ed elegante precisione[18], spiegando poi che l’idea di parlare di “circolazione” gli era stata suggerita dall’insegnamento di Aristotele, che indicava il circolo o cerchio quale figura perfetta della geometria[19].

Harvey fece di tutto per ottenere benevolenza e approvazione da parte dei colleghi: dedicò il libro al College of Physicians e scrisse che non lo avrebbe mai proposto all’estero prima di sottoporlo al giudizio dei suoi pari connazionali, prima di aver risposto a loro dubbi e obiezioni, o senza aver ottenuto un verdetto favorevole da parte del President of the College. Ma, nonostante questa captatio benevolentiae riguardosa e rispettosa, la maggioranza dei colleghi non mostrò alcun interesse per il suo lavoro.

Solo dopo due anni arrivò il primo commento scritto: una lapidaria stroncatura da parte del dottor James Primerose che, dopo aver citato Galeno ed altri autorevoli medici, notava che le affermazioni di Harvey erano in contrasto con quei principi e dunque erano sbagliate. Fine della discussione[20].

La maggioranza dei medici non riteneva il saggio degno di attenzione perché non presentava un’argomentazione teorica di spessore nel lessico specialistico dell’epoca e proponeva rozzi calcoli di pesi e volumi in rapporto al tempo; altri osservarono che tutti i dati più significativi sull’uomo provenivano da autopsie e dunque non potevano considerarsi attendibili per la fisiologia degli organismi vivi; solo alcuni, infine, posero degli interrogativi fondati.

La prima domanda fu questa: se il sangue circola e dalle arterie ritorna alle vene, come e dove avviene questo ritorno? Domanda alla quale Harvey non poteva rispondere, e che avrebbe richiesto ancora studi e scoperte. Poi gli fu chiesto quale fosse il fine – oggi diremmo biologico – della circolazione, a fronte della descrizione di un ciclo continuo. Ma il quesito più delicato fu formulato in modo brutalmente semplice: perché un medico dovrebbe interessarsi al fatto che il sangue circoli? Ovvero, in che modo sapere della circolazione del sangue cambia la pratica medica?

Quest’ultimo quesito ci riporta alla tendenza psicologica alla conservazione di ciò che è noto; la domanda è sottesa da un atteggiamento psicologico che sembra dire: se non sono costretto da un cambiamento della pratica, non voglio nemmeno sapere di questa scoperta.

Fuori dell’Inghilterra la tesi della circolazione del sangue non incontrò opposizioni preconcette e fu accettata con entusiasmo da Cartesio, che la ritenne del tutto plausibile e compatibile con la nuova visione meccanica del corpo. Ma Harvey non diede peso all’opinione del filosofo, sia perché non riconosceva autorevolezza in questo campo a un pensatore che non era né medico né anatomista[21], sia perché considerava la concezione meccanica delle funzioni dell’organismo una moda passeggera e non un paradigma scientifico.

John Aubrey, amico di William Harvey, riferisce dell’opposizione pregiudiziale, dell’avversione, dell’astio e dell’invidia dei colleghi suscitata dalla pubblicazione del saggio, osservando che i detrattori non formulavano obiezioni scientifiche, ma invettive personali. E, per questo motivo, Harvey scelse di non replicare dichiarando: “Io penso che sia una cosa indegna di un filosofo e ricercatore della verità restituire cattive parole per cattive parole”[22]. Di fatto si astenne da ogni risposta per venti anni.

Amareggiato per una tanto inattesa quanto sfavorevole accoglienza della sua scoperta, il fisiologo si immerse nei suoi studi, dedicandosi all’embriogenesi e alla comprensione dei processi legati alla distribuzione del fluido vitale negli insetti, stabilendo differenze e similitudini con i vertebrati. Per superare la delusione, si rifugiò negli affetti, e l’amicizia con Carlo I ebbe un ruolo importante, anche perché il monarca era un entusiasta sostenitore della teoria della circolazione del sangue, ritenendosi in qualche modo partecipe della scoperta.

Carlo era venuto a sapere di un caso eccezionale, di cui si parlava a corte come nei salotti dei nobili inglesi, che riguardava il giovane visconte Montgomery: per una gravissima ferita riportata in una caduta da cavallo era andato incontro alla distruzione traumatica e necrotica di una zona circoscritta della parete toracica; per prevenire conseguenze mortali, il chirurgo aveva asportato i frammenti ossei e i tessuti molli lacerati e in necrosi, lasciando un’apertura dai bordi cicatrizzati, una sorta di piccola finestra sulla cavità toracica, che decise di ricoprire con una placca metallica rimuovibile. Carlo fece in modo che il suo amico medico potesse incontrare il giovane nobile per rendersi conto di persona, stimare lo stato clinico e magari formulare una prognosi.

Quando incontra il visconte Montgomery, Harvey rimane impressionato dal suo perfetto stato di salute e di forma, nonché stupito allorché il giovane spontaneamente rimuove la placca per mostrargli l’esito del trauma, e in proposito scrive: “Vidi immediatamente un vasto foro”[23].

Attraverso quella eccezionale finestra sulla fisiologia cardiorespiratoria, il medico di corte non solo può vedere le contrazioni di un cuore vivo e pulsante, ma può anche introdurre il pollice e altre tre dita per una delicata palpazione e, soprattutto, per percepire al tatto dalla superfice pericardica l’ingresso del sangue con l’espansione diastolica dell’atrio e la fuoriuscita con la contrazione sistolica del ventricolo[24]. Contemporaneamente, con l’altra mano, Harvey palpava il polso, rilevando l’arrivo della pulsazione un istante dopo la contrazione del cuore, come prevedeva il modello di fisiologia cardiovascolare descritto nel De motu cordis.

Aveva ricevuto una straordinaria conferma della sua scoperta: il battito cardiaco è causa ed effetto della circolazione del sangue, che viene espulso con forza nelle arterie e poi ritorna attraverso le vene, consentendo al cuore di espellerlo nuovamente in un ritmo incessantemente propagato a tutto l’organismo. Harvey stesso racconta che, invece di fornire un resoconto dell’esperienza, decise di portare il giovane gentiluomo in persona da Carlo I, in modo che potesse vedere e toccare con mano quanto lui aveva rilevato in questo caso più unico che raro. E così fece.

Il nipote di Maria Stuarda e marito della principessa Enrichetta di Francia, dopo aver percepito il battito del cuore di Montgomery e avergli detto che avrebbe tanto voluto percepire allo stesso modo il cuore e i pensieri della sua nobiltà, divenne il più strenuo sostenitore della teoria della circolazione del sangue.

Lo scoppio della Guerra Civile Inglese, in cui le forze antimonarchiche parlamentari si coalizzarono con i puritani che accusavano il sovrano di politiche religiose filocattoliche, si abbatté come una catastrofe distruttiva su di loro. Harvey fu colpito nel corpo da una ferita che non guarì mai e nell’animo dal saccheggio della sua casa, e soprattutto dal furto degli appunti di una vita di ricerca, mentre Carlo I Stuart fu catturato, processato, condannato e decapitato con l’accusa di alto tradimento[25].

Con la morte di Carlo si chiuse un periodo di grande sviluppo artistico, culturale e scientifico, e finì il mondo in cui Harvey aveva sviluppato il suo ingegno e la sua scienza. Il sovrano amava l’Italia e ne aveva imitato lo stile culturale, divenendo mecenate di artisti. Aveva molti quadri di Tiziano, il suo pittore preferito, e aveva chiamato a corte Frans Hals e Pieter Paul Rubens, il quale non rimase a Londra, a differenza del suo allievo Antoon Van Dyck, che divenne pittore di corte e principale ritrattista di Carlo. Ospitò Orazio Gentileschi e la figlia Artemisia, cercando di attrarre a Londra anche Gian Lorenzo Bernini, che accettò solo di fargli un busto a distanza, ricavando le sue fattezze dall’opera di Van Dyck intitolata Triplo Ritratto di Carlo I.

Harvey rimase a curare i membri ammalati di quella che era stata la corte di una monarchia ormai deposta e narra di aver avuto pazienti con piaghe, tifo e malaria, ma di aver visto più gente morire di grief of mind, ossia di dolore morale, che di qualsiasi altra malattia[26]. Anche la sua tristezza, e una presumibile condizione depressiva, si aggravarono con la morte della moglie e poi con il licenziamento dall’Ospedale di San Bartolomeo, deliberato dal Parlamento Repubblicano in ragione della sua amicizia col sovrano giustiziato. Solo quando ebbe un incarico ad Oxford, dove poté insegnare la sua teoria della circolazione del sangue ed avere come allievo il brillante e intraprendente Thomas Willis, futuro scopritore del poligono arterioso cerebrale, recuperò poco per volta il suo tono dell’umore e trovò un nuovo equilibrio.

Sul finire della vita, Harvey ebbe la soddisfazione del riconoscimento unanime del valore della sua scoperta e dei suoi metodi di ricerca in fisiologia. Hobbes scrisse che Harvey è “forse l’unico uomo che ha vissuto tanto da vedere la propria dottrina riconosciuta mentre era ancora in vita”[27].

 

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-16 ottobre 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Cartesio, come abbiamo visto in precedenza col brano che ho citato dal suo Discorso sul metodo, è preoccupato per il trattamento ricevuto da Galileo Galilei e apertamente lo dichiara, evitando con cura di urtare la suscettibilità delle autorità religiose nello sviluppo puramente logico delle sue tesi.

[2] Anche se a scuola il Galileo letterato si studia, come provano i testi scolastici di letteratura italiana e di antologia letteraria, questo aspetto rimane in ombra.

[3] Come nei terrapiattisti e in tutti gli altri irrazionalisti di oggi, credo che la questione principale non sia costituita dalle razionalizzazioni che adottano, ma dal meccanismo psicologico di rifiuto della realtà.

[4] Roberto Bellarmino non si concepì mai quale “Principe della Chiesa”, nonostante i suoi alti incarichi vaticani, e cercando la perfezione cristiana, seguì quanto Gesù aveva detto al giovane ricco e, donando tutti i suoi averi ai poveri, visse nella povertà la sua missione, seguendo la “via stretta” penitenziale in sincera e profonda comunione spirituale col Signore. Canonizzato come San Roberto il 29 giugno del 1930 da Papa Pio XI.

[5] Per vincere la resistenza psicologica sarebbe stato necessario entrare nell’ottica di Galileo, ossia rendere cosciente l’evidenza di una differenza di oggetto tra fisica e metafisica, e così valutare alla luce di tale separazione il valore di una dottrina cosmologica.

[6] Concettualmente potrebbe essere ricondotta a una parte del funzionamento psichico associato alla spiritualità (cfr. La ricerca dello spirito nel cervello nella sezione “IN CORSO” del sito).

[7] Immanuel Kant, Lezioni di psicologia, pp. 54-55, Laterza, Bari 1986. Cfr. Immanuel Kant, Il Conflitto delle Facoltà, Morcelliana, Brescia 1994.

[8] Immanuel Kant, Logica, p. 60, Laterza, Bari 1990.

[9] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, p. 332, Laterza, Bari 1972.

[10] Mi rifaccio prevalentemente a conversazioni con astronomi tenute presso la libreria “Edison” (attuale “Feltrinelli Red”) in Piazza della Repubblica in Firenze.

[11] Particolarmente quando questi eventi hanno luogo fuori della cornice narrativa che evoca tutti valori simbolici messi in gioco dalla cultura acquisita fin dalla più tenera età in ambito familiare. Un tempo, quando vi erano costumi sessuali legati alla formazione di una coppia genitoriale e non erano precoci e indiscriminati per fine di puro piacere come oggi, questo effetto di verità materiale era esperito da molti anche al primo rapporto sessuale.

[12] Ho tratto e tradotto la maggior parte dei fatti biografici su Harvey da Sir D’Arcy Power, William Harvey, T. Fisher Unwin, London 1897, un classico al quale fanno riferimento quasi tutti i biografi; ho poi consultato le pp. 161-162 del Tomo II di Roy Porter, Dizionario Biografico della Storia della Medicina e delle Scienze Naturali, Franco Maria Ricci, Milano 1987; e, infine, William Osler, L’Evoluzione della Medicina Moderna, Sampognaro & Pupi, Siracusa 2010.

[13] Carlo I Stuart è venerato quale santo dalla Chiesa Anglicana, che ne celebra la ricorrenza nel giorno del suo martirio, il 30 di gennaio.

[14] Cit. in Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain and How It Changed the World, p. 72 (Tr.d.A.), Free Press (Simon & Schuster), New York 2004.

[15] In Inghilterra i chirurghi non erano medici come in Italia, ma degli empirici che imparavano per imitazione come un mestiere, ossia un’attività in cui il braccio prevale sulla mente, dei rozzi e grossolani sistemi per asportare da un corpo parti malate o traumatizzate e non guaribili. Spesso, dove non vi erano medici laureati, i chirurghi tendevano a sostituirli, pur mancando di conoscenze per diagnosticare le malattie e indicare terapie non chirurgiche.

[16] Secondo Galeno il sangue veniva consumato dagli organi e dai tessuti e rigenerato grazie all’apporto alimentare.

[17] Oggi è ricordato per aver scoperto l’organo detto appunto detto Borsa di Fabrizio, che negli uccelli è sede della produzione dei linfociti B, prodotti nei mammiferi dagli analoghi borsali e contrapposti ai linfociti T originati nel timo.

[18] Cfr. Carl Zimmer, op. cit., p. 72.

[19] All’Università di Padova era diventato esperto del pensiero di Aristotele, perché sei dei suoi diciotto professori erano grandi studiosi del filosofo di Stagira.

[20] Cfr. Carl Zimmer, op. cit., p. 73.

[21] Harvey non riconosceva valore alle esperienze di dissezione condotte dal matematico francese come “dilettante”.

[22] Carl Zimmer, op. cit., p. 74.

[23] Sir D’Arcy Power, op cit., ripreso da Carl Zimmer, op. cit., p. 74.

[24] Come si legge in D’Arcy, prima di quel momento lo stesso Harvey aveva scritto di essere “quasi tentato di pensare che il movimento del cuore possa essere compreso solo da Dio”.

[25] Adriano Prosperi e Paolo Viola, Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese, p. 3, Einaudi, Torino 2000.

[26] Cfr. Carl Zimmer, op. cit., p. 76.

[27] Cit. in Carl Zimmer, op. cit., p. 119.